Nella malattia di Alzheimer si sa, una delle prime facoltà cognitive a venir meno è la memoria. A questa si susseguono, non sempre secondo quest’ordine, l’attenzione, la comprensione, l’eloquio, la capacità decisionale e la prassia. Per quanto riguarda l’eloquio, alias la capacità di “produrre parole”, inizialmente la persona ha la sensazione che le parole “rimangano sulla punta della lingua”, dopodiché con il progredire della malattia inizia ad inventare parole nuove, neologismi e ad utilizzare termini passepartout per cercare di colmare i vuoti (passami il coso, per esempio). Nella fase successiva questo aspetto si aggrava divenendo parafasia, un disturbo del linguaggio secondo cui vengono scambiate le sillabe all’interno della parola, fino a non diventare più comprensibile il contenuto del messaggio stesso. La persona quindi riuscirà a dire “ho rdeffo” per indicare che ha freddo.
Questo disturbo non è presente solamente nella demenza di Alzheimer ma in patologie quali l’ictus o in altri tipi di malattie di natura vascolare, traumatica o degenerative. Soprattutto nelle fasi iniziali della malattia la persona colpita è abbastanza consapevole delle mancanze cognitive, seppur in maniera “fluttuante”: esiste una variabilità individuale di reazioni che spaziano dalla progressiva chiusura fino ad arrivare ad uno stato depressivo, alla presenza dei cosiddetti disturbi comportamentali che sfociano in agiti aggressivi, atti a negare i limiti cognitivi sempre più invalidanti.
Caratteristica della demenza di Alzheimer è l’anosoagnosia, cioè l’incapacità della persona di riconoscere il proprio deficit, una mancanza di consapevolezza di malattia. Questo porta la persona colpita a cercare di colmare i vuoti presenti “inventando” fatti inesistenti, oppure ad accusare gli altri di latrocinio nel momento in cui non ricorda più dove -per esempio- ha riposto la borsa.
Un giorno la signora A., un’anziana con demenza di Alzheimer in fase avanzata, famosa per le sue incomprensibili insalate di parole, mentre si accingeva con foga a maneggiare dei fazzoletti sul tavolo, esclamò in modo serio e abbastanza comprensibile: “ho la bolsa!”. D’istinto -e per puro caso- provai a chiederle “DOVE?”, non sapendo bene dove volessi andare a parare e se mai avesse capito la mia semplice domanda. La signora mi guardò e si mise subito la mano alla gola rispondendo “QUA”. Intuii che la signora aveva mal di gola. Ne ebbi conferma in seguito ad una visita medica per cui le vennero prescritti degli antibiotici.
Racconto questo aneddoto per sottolineare quanto sia importante ascoltare tutte le informazioni che ci vengono fornite, sotto qualsiasi forma esse siano. La struttura del linguaggio lentamente si deteriora spogliandosi sempre di più rispetto la sua forma originaria ma qualche traccia di esso rimane: sta a noi coglierla ponendoci in una condizione di ascolto attivo. Talvolta si andrà per prove ed errori, qualche altra volta come nel caso sopra descritto, saremo più fortunati e arriveremo a capire subito il tipo di bisogno richiesto, l’importante é non dare subito per scontato che “tanto la persona non capisce”: in questo modo chiuderemo qualsiasi tentativo di interpretazione, ricorrendo magari alle terapie sedative quando invece un paracetamolo potrebbe risolvere in modo ottimale un disturbo del comportamento. Un mal di gola non espresso a parole può diventare urla, pianto, rabbia, oppositività.