Demenza: riorientare o validare?
La R.O.T. (terapia di orientamento alla realtà) è stata creata da Taulbee e Folsom alla fine degli anni ’50. Inizialmente essa è stata utilizzata per il trattamento dei veterani di guerra che presentavano problemi cognitivi, verosimilmente insorti in seguito all’ esposizione a situazioni traumatiche.
Solo in seguito è stata pensata sia per rinforzare le funzioni cognitive degli anziani che presentano demenze di tipo degenerativo, sia per sollecitare gli stessi dal punto di vista relazionale e comunicativo. Attraverso una serie di esercizi, suddivisi per categoria a seconda dell’area che si vuole sollecitare, con il supporto di uno psicologo l’anziano rievocherà informazioni di base, come l’orientamento spazio-temporale o ricordi autobiografici.
Attraverso l’utilizzo attivo delle risorse rimanenti -il cervello è un organo che possiede un certo grado di plasticità neurale- si cercherà di stimolare il ricordo a lungo termine delle nozioni interiorizzate in un tempo precedente alla malattia.
Ovviamente la R.O.T., così come tutti gli altri esercizi di “potenziamento cognitivo”, può contribuire in parte a rallentare il decorso della degenerazione del tessuto cerebrale, ma come per altri metodi farmacologici e non, non risulta scientificamente fondato che riesca ad arrestare il decadimento nel lungo termine.
Addirittura, man mano che il decadimento avanza, secondo le osservazioni cliniche che ho potuto constatare stando a contatto con anziani istituzionalizzati, può risultare controproducente sulla sfera del tono dell’umore: per questo motivo occorre effettuare un cambio “paradigmatico” adottando altre strategie.
Nel momento in cui l’anziano ha la (più o meno blanda) consapevolezza di non riuscire a dare la risposta corretta, subentra uno stato di frustrazione che può determinare uno stato di nervosismo o negazione, fino ad arrivare a sintomatologie depressive.
C’è un momento nella demenza, in cui la persona percepisce di non essere più nel pieno delle proprie facoltà: percepisce di non essere più se stessa. E’ a questo punto che l’operatore deve avere l’accortezza di cambiare strategia, adottando altri approcci. Tra i metodi alternativi (e da applicare temporalmente dopo la R.O.T., oserei dire) vi è la Validation Therapy, di cui parlerò in modo più approfondito nei prossimi post.
Nello specifico, nella stimolazione cognitiva si cerca di “tirare a sé” l’anziano, riportandolo o cercando di farlo rimanere nel “nostro” mondo, volendo evitargli (l’inevitabile) progressivo declino della malattia involutiva. Al contrario, in tutti quegli approcci definiti “validanti”, come appunto la Validation therapy (ideata da Naomi Feil) o la Terapia della Bambola (nata grazie al contributo di Britt-Marie Egedius Jakobsson) siamo noi normodotati cognitivamente ad “andare verso” la realtà dell’anziano, cogliendo e validando appunto la sua realtà soggettiva, senza giudicarla, semplicemente accogliendola.
Riferimenti
- Il metodo validantion. Costruire relazioni serene con la persona con demenza. Vicki de Klerk-Rubin
- Orientamento nella realtà. Attività di riabilitazione cognitiva in persone con traumi cerebrali. Elizabeth Bressler, Sharon Holloran
Vania
Scritto alle 20:35h, 07 MarzoConcordo pienamente con te Federica!La persona con demenza ha bisogno di “accolta”, ascoltata e condotta nel suo mondo,senza forzare il suo pensiero cognitivo per riportarlo a noi!In prima dobbiamo validare la persona con deterioramento cognitivo e accettare questo loro stato di diversità cognitiva/emotiva/sensoriale! Grazie Federica per aver condiviso questa riflessione.