Lo scorso 10 marzo ho partecipato ad un convegno a Cerea (Vr) riguardante l’importanza della pratica del karate in età evolutiva. Oltre a me erano presenti altri relatori che dal loro punto di vista (medico ed educativo) hanno approfondito le ragioni per cui questo sport (ma è meglio parlare di stile di vita) risulta un incentivo alla buona e armoniosa crescita del bambino, a partire dall’età scolastica.
Ho cercato di dare il mio personale contributo non solo come psicoterapeuta ma anche alla luce della mia esperienza ventennale nel campo di questa disciplina, in qualità di ex agonista, ma soprattutto, di bambina che si è avvicinata a questa forma d’arte all’età di 9 anni.
Parlare di “aspetti psicologici” risulta sempre difficile a causa della vasta portata di concetti, teorie e riflessioni a riguardo, per questo motivo ho cercato di confinare le mie riflessioni all’interno delle due categorie: aspetto COGNITIVO e aspetto EMOTIVO, seppur entrambi siano macro argomenti degni di essere a loro volta ridefiniti in specifiche sotto-aree. Questi spunti di riflessione ovviamente oltre ad essere validi per i bambini possono essere estesi anche agli adulti.
Per quanto riguarda gli aspetti COGNITIVI: essi rappresentano tutte quelle capacità adibite al cosiddetto “pensiero superiore” che risiede nella neocorteccia, vale a dire il linguaggio, la capacità di comprensione, la memoria e l’apprendimento, la concentrazione e l’attenzione, l’orientamento, il pensiero astratto, la programmazione, l’organizzazione e l’ inibizione del comportamento, il movimento volontario, l’elaborazione visiva, la consapevolezza ecc… tutti aspetti che nel karate, essendo una disciplina “varia” e ricca di spunti cognitivi, vengono stimolati continuamente.
A questo punto però è doveroso specificare -per chi non conoscesse la disciplina del karate- perché la definisco varia o “ricca” di spunti cognitivi.
Essa consta di tre componenti fondamentali:
- il “kata” (esercizio svolto singolarmente che rappresenta simbolicamente un combattimento verso avversari immaginari),
- il “kumite” (tradotto come combattimento, nonostante non abbia lo scopo di abbattere l’avversario, bensì di scoprire il proprio potenziale per poter abbattere l’avversario, mantenendo il controllo della tecnica)
- il “kihon” (eseguito singolarmente, consiste nella ripetizione precisa e forte di una serie di tecniche base con lo scopo di interiorizzarle e automatizzarle).
A queste vanno ad aggiungersi sottocategorie formali come per esempio il kata a squadre, dove si deve eseguire l’esercizio di stile in perfetta sincronia, il bunkai –significa letteralmente kata smontato- che consiste nella trasposizione pratica del kata il quale avviene in due o più persone, e molte altre variazioni del kata tra cui ura con direzione opposta e ko no eseguito indietreggiando.
Questi sono solo alcuni degli aspetti per cui definisco il karate, a differenza di altri sport, una disciplina che “arricchisce” cognitivamente, poiché si rivela utile per mantenere una buona dose di elasticità mentale e capacità mnestica (relativa alla memoria).
Ma in termini psicologici, come posso definire questa elasticità?
Questo concetto è ben espresso dal termine neuroplasticità ossia la capacità generale del cervello di modificare e adattare le proprie reti neurali in base all’esperienza vissuta. La neuroplasticità possiede un’utilità evoluzionistica, poiché grazie ad essa riusciamo ad adattarci alle nuove situazioni, agli imprevisti, ai “cambi di programma” improvvisi che ci fanno scivolare fuori dalla nostra zona di comfort e che ovviamente ci colgono impreparati. La neuroplasticità ci fa affrontare con maggior flessibilità i problemi esterni: più schemi pratici motori (e quindi cerebrali tramite connessioni neurali nuove) abbiamo appreso e interiorizzato, più siamo in grado di fronteggiare le incognite esterne. Ma abbiamo un potenziale beneficio anche a livello interno: qualora il cervello presentasse lesioni più o meno invalidanti, la neuroplasticità permette, nel limite del possibile, una parziale riorganizzazione delle reti neurali. Ecco perché è importante la variabilità della pratica al fine di acquisire diversi schemi di azione: il karate, come abbiamo visto sopra, questa particolarità la possiede. E’ stato dimostrato da ricerche condotte attraverso esami strumentali (risonanza magnetica) come la neuroplasticità modifichi in senso positivo il cervello degli sportivi (rif. TrainingLab Firenze).
E per quanto riguarda l’aspetto EMOTIVO, quale contributo può dare il karate nella definizione di un sano sviluppo nelle persone, siano esse bambini o adulti?
Favorisce il riconoscimento e l’accettazione dei propri limiti, nonché il desiderio di migliorarli accettando l’insegnamento di chi ha più esperienza, in questo caso, il maestro. Promuove anche lo sviluppo dell’autocontrollo inteso come valutazione della situazione e opportuna reazione, migliora il tono dell’umore anche grazie alla socializzazione e il contatto con un gruppo, aiuta a contrastare la timidezza o ad arginare l’esuberanza poiché il rispetto delle regole e del dojo (il luogo dove si svolgono gli allenamenti) arriva prima di tutto.
Ma soprattutto, il karate, così come molti altri sport, aiuta a “vaccinarsi” alle emozioni negative, come la paura, l’ansia prestazionale, la rabbia. Le emozioni non andrebbero mai contrastate, negate, soffocate: più si cerca di farlo e più queste ritornano, con una portata maggiore o sottoforma di somatizzazioni. I pensieri si possono gestire, le emozioni solo in parte poiché sono istintive: per questo è bene prima accoglierle e poi interpretarle, anziché volerle azzerare. Nel karate esse vengono vissute “sul campo”: la giusta “ansia”, se espressa in un contesto protetto come il dojo, si rivelerà utile per vaccinare il bambino alle medesime situazioni negative che proverà in altri contesti futuri di vita. L’ansia da gara, da kumite o da esami è inevitabile e giusta dal momento che indica una sottostante volontà di fare bene… il problema è che raramente si parla di quanto sia utile “provarla” dal momento che, qualora lo facessimo, per un’ovvia questione culturale risulteremmo dei “deboli”.
Qualche insegnante mi ha chiesto come gestire la situazione nel caso in cui un bambino non superasse un esame di passaggio di cintura. Come aiutare quindi il bambino a non flagellarsi nel dolore e nella frustrazione di una bocciatura?
La risposta ovvia sarebbe quella di evitare che si flagellino dapprima i genitori a causa di questa avvenuta scandalosa sciagura. Sembra strano ma i bambini non sono così destrutturabili psicologicamente come sembra: essi vivono perlopiù nel riflesso emotivo manifestato dalle figure di riferimento (i genitori appunto): viene logico pensare quindi che se per prima i famigliari non aiutano il bambino a considerare un insuccesso come un singolo (risolvibile) intoppo della vita, risulterà difficile per gli insegnanti o istruttori, compiere il miracolo.
D’altro canto non sarebbe corretto nemmeno promuovere tutti i bambini a prescindere dalla prestazione: non lo sarebbe né verso chi ha condotto la performance migliore, né per il bambino che ha sostenuto per esempio un esame mediocre, perché questo significherebbe negargli una reale possibilità di sviluppo e miglioramento futuro. Il problema è che non siamo più abituati all’insuccesso e ci scordiamo fin troppo spesso che solamente grazie all’errore e ai singoli fallimenti il bambino (ma anche l’uomo) ha avuto l’opportunità di migliorarsi. Sarebbe consigliabile quindi come da consuetudine, tenere aperto il dialogo con i genitori degli allievi e metterli in modo sereno di fronte al proprio metodo di valutazione, specificando che qualora avvenisse una bocciatura, non verrà giudicato il “bambino” come persona, ma la singola prestazione, considerando ovviamente l’impegno e la costanza dimostrati nel periodo antecedente l’eventuale esame.
Scriveva a tal proposito il Prof. Perticari, pedagogista dell’università di Bergamo che “L’errore ci porta sul cammino dell’accettazione, dell’esplorazione e della mutua correzione nella consapevolezza di non voler fare di ognuno di noi una macchina banale che adotta risposte sempre prevedibili e nella scoperta che ci può e deve essere una sicurezza che si basa non già sul preconfezionamento di risposte banali, bensì sulla meraviglia de il mondo è così e mi sorprende!”.
La non prevedibilità delle risposte, la meraviglia della varietà di stimoli presenti nel mondo, il conseguente svilupparsi della neuroplasticità atta alla sopravvivenza. Il karate rappresenta parte di questa linfa vitale. Perché alla fine, cognitivo ed emotivo sono collegati da “noi” come persone, bambini, adulti, karateki.
Riferimenti:
– Yuko Munakata – University of Colorado a Boulder, rivista Frontiers of Psychology
– Cogito ergo soffro: quando pensare troppo fa male. Nardone, De Santis, ed. Ponte alle Grazie, 2011
– Elementi di psicoterapia cognitiva. Perdighe e Mancini, ed. Fioriti 2010
– La mente relazionale, Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, D. Siegel, ed. Cortina Raffaello 2013
– Sentire e pensare. Emozioni e apprendimento fra mente e cervello di C. Cristini, A. Ghilardi, Springer Verlag 2008
– Attesi imprevisti, P. Perticari, Bollati Boringhieri, 1996