Federica Merlini

La depressione. Un male oscuro che può essere curato.

La depressione e i suoi correlati fisiologici

La depressione è una patologia che rientra, secondo DSM 5, tra i disturbi dell’umore.

Le statistiche stimano che circa 340 milioni di persone nel mondo soffrano di qualche forma di depressione e che la fascia più colpita sia quella dei 30-50 anni di età.

In particolare, vi rientrano: la depressione definita “maggiore”, la depressione reattiva, il disturbo bipolare, il disturbo disforico premestruale (una novità rispetto la precedente edizione del manuale diagnostico) e il disturbo distimico. Come si può quindi ben dedurre, non esiste una definizione unica di “depressione”, questa può manifestarsi con diversi sintomi fisici e comportamentali, con diversa intensità e per diverse cause, in maniera cronica o temporanea.

Cosa intendiamo per “correlati fisiologici”? Il pattern di neurotrasmettitori che si mette in moto e che vanno ad innescare e/o a mantenere una serie di reazioni fisiche e comportamentali. Il cervello è formato da miliardi di neuroni che comunicano fra loro attraverso impulsi elettrici e messaggi chimici, i neurotrasmettitori appunto.

Nel caso della persona che soffre di depressione ad essere compromesse sono “le vie di comunicazione” dei neurotrasmettitori: serotonina, noradrenalina e dopamina. I farmaci, in questo caso gli antidepressivi (ma non solo) intervengono a livello biochimico, determinando l’aumento della disponibilità del neurotrasmettitore stesso nello spazio sinaptico, cui corrisponde l’aumento della quantità psichica disponibile e la riduzione dei sintomi.

Come si sente una persona che soffre di depressione? Tra i sintomi più comuni: un forte senso di affaticamento, il sentirsi svuotati dalle energie o per contro irrequieti, nervosi, difficoltà ad addormentarsi (si dorme troppo o si dorme troppo poco), tristezza fino ad arrivare all’angoscia, difficoltà nel prendere decisioni, tendenza alla catastrofizzazione di ogni singolo evento quotidiano (si tende a rimuginare costantemente), tendenza ad isolarsi e talvolta, nei casi più gravi, tentativi di suicidio.

Perché ci si sente stanchi, tristi, senza la capacità di reagire, o paradossalmente nervosi e irrequieti? La domanda che sorge spontanea è: esiste una predisposizione genetica allo svilupparsi della depressione oppure è il solo modo “disfunzionale” di pensare e rimuginare che ci porta ad essere depressi?

Gli studi delineano due possibili cause, dette “fattori di vulnerabilità”: una genetica, per cui esiste un’ereditarietà nella predisposizione allo sviluppo dei sintomi depressivi e una psicologica, per cui gli eventi avversi della vita portano a sviluppare modi di pensare disfunzionali rendendo la persona vulnerabile alla depressione. Questa concatenazione di variabili viene definita “diatesi-stress”, vale a dire che esiste sia una predisposizione genetica (Kohli nel 2011 ha rilevato la presenza di alcuni geni alterati nelle regioni cerebrali deputate alla regolazione emotiva, nello specifico nel nucleo accumbens) sia la presenza di condizioni ambientali sfavorevoli percepiti “gravemente stressanti” dalla persona. Quindi la vulnerabilità psicologica personale è determinante per il manifestarsi della depressione in una persona geneticamente predisposta.

Però attenzione. Non dobbiamo confondere un periodo “no” in cui ci sentiamo “giù di morale” o malinconici con la depressione, definita in senso patologico. E’ normale (ed entro certi limiti giusto) provare emozioni, belle o dolorose che siano, in quanto rappresentano il “termometro” del nostro stare al mondo e del rapportarci con tutti gli eventi che ci accadono: nello specifico anche la tristezza ha la sua funzione, quella di aiutarci ad elaborare in maniera sana le perdite importanti.

Cosa diversa è considerata la depressione, per cui occorre intervenire in modo tempestivo. La cura di prima elezione è considerata il ricorso ad un supporto psicofarmacologico unito ad un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale utile per cercare di aumentare le abilità sociali, il senso di autoefficacia percepita (“Io posso farcela!”) e ridurre le cosiddette distorsioni cognitive di cui parlerò in un articolo a parte.