Parliamo di ipocondria.

Avere timore di contrarre una malattia o, in modo più estremo, avere paura della morte e della sofferenza è una condizione che accompagna l’uomo sin dall’antichità.
Ma l’ipocondria, nel senso “patologico” del termine, è una condizione ben più complessa. Si tratta di un’angoscia molto più profonda rispetto una normale e comprensibile preoccupazione, che destabilizza la persona colpita e la limita nella sua realtà quotidiana. Nel Dsm 5 viene definita “disturbo da ansia da malattia” ed è classificata tra i disturbi da sintomi somatici.
L’età d’esordio è comunemente considerata la prima età adulta.
Per rientrare nella categoria diagnostica ufficiale, la preoccupazione per la malattia deve essere presente da almeno sei mesi e non essere meglio spiegata da un altro disturbo mentale (D.O.C., dist. Delirante di tipo somatico…).

La persona ipocondriaca prova una profonda e costante preoccupazione per le proprie funzioni corporee, come il battito cardiaco e la peristalsi intestinale; per la presenza di alterazioni fisiche di lieve entità come piccole ferite o la presenza di nei, oppure per la percezione di sensazioni vaghe che vengono accompagnate da immagini terrificanti (per es. verbalizzano il timore di avere il cuore affaticato a cui associano l’immagine mentale del proprio muscolo cardiaco sul punto di scoppiare).

Tra i fattori predisponenti al manifestarsi del disturbo vi sono aspetti familiari, secondo i quali qualche membro della famiglia deve aver sofferto a sua volta di ipocondria, di disturbi d’ansia o di tipo ossessivo, nonché di un tipo di attaccamento insicuro verso una figura di riferimento, la quale trasmetterà la percezione di un mondo “pericoloso” per cui l’esplorazione dell’ambiente sarà esitante e vivrà con la convinzione di essere fondamentalmente una persona fragile (vedi teoria dell’attaccamento di John Bowlby).
Vi è la possibilità che questi fattori predisponenti, nel momento in cui vengano “esacerbati” da una rimuginazione ossessiva riguardo i sintomi percepiti (che sono perlopiù stati di malessere temporaneo) possano trasformarsi nella patologia ipocondriaca vera e propria.

Solitamente il fattore precipitante che determina il conclamarsi della diagnosi è rappresentato da una pregressa malattia clinica grave dello stesso paziente o dalla morte, anche accidentale, di una persona cara. In altre occasioni basta “solamente” che il paziente senta l’infausta notizia che una persona si sia ammalata, per farsi influenzare negativamente ed innescare l’ansia ipocondriaca.

Oltre a questo, il danno che va ad aggravare la beffa é che la persona ipocondriaca, in equilibrio tra il timore di avere una patologia letale e l’illusoria percezione di voler avere la situazione sotto controllo, tende a rifugiarsi nel web per porre le proprie questioni ai motori di ricerca. Questo perché raramente si dimostrano veramente soddisfatti delle risposte dei medici e degli specialisti a cui si affidano. Ecco che allora i motori di ricerca (come google) diventano i totem da cui dipende la qualità della loro (temuta breve) esistenza. Nello specifico questa ossessiva ricerca dei sintomi su Internet viene definita cybercondria e il fenomeno cognitivo che vi sottende é rappresentato dal bias di conferma: un fenomeno cognitivo umano per il quale le persone tendono a muoversi all’interno delle loro conoscenze acquisite e difficilmente riescono a disfarsene.

Il fatto da tenere presente è che il web, per una serie di motivi tecnici, tende a restituire al mittente ciò che desidera sentirsi dire: in poche parole trattiene tutte le informazioni emerse dalle ricerche effettuate nello storico, all’interno di una sorta di biblioteca. Ed è proprio da lì che andrà ad attingere durante la ricerca successiva (dei sintomi).

Fondamentalmente quello che realmente risulta angosciante per la persona che soffre di ipocondria è il DUBBIO. Mentre nel caso in cui una persona soffra di disturbo delirante di tipo somatico, c’è la certezza di aver contratto una qualsiasi patologia, nel caso dell’ipocondria il dubbio diventa concreto e si esprime nella moltitudine di visite mediche e frequentazioni con professionisti e luminari del caso (o nel suo paradossale contrario, vale a dire evitando gli ambienti medici).

Cosa fare quindi, nel caso si presentasse un disturbo di questo tipo? Le statistiche dicono che la probabilità maggiore di risoluzione dei sintomi ipocondriaci è data dall’associazione tra terapia cognitivo comportamentale e l’assunzione di un’adeguata terapia farmacologica (spesso vengono prescritti antidepressivi SSRI).

A livello psicologico, nello specifico si andrà a lavorare sui pensieri di fondo che sottendono l’angoscia e l’ansia, nonché sulle tecniche per gestirle e per creare nuovi schemi d’azione, razionalizzando l’infausto dialogo interno attraverso il debating (la ristrutturazione cognitiva).

Come riferito in precedenza l’aspetto angosciante per il paziente è rappresentato dal dubbio di poter contrarre una malattia mortale: ovviamente non si può assicurare al paziente la certezza che non verrà mai colto da infarti o patologie tumorali (saremmo dei maghi, non psicologi!), ecco perché diventa di cruciale importanza lavorare anche sull’eventuale accettazione dei rischi di poter contrarre dei malanni: la differenza sta nel vivere da “sani” il presente, senza considerarci dei malati prima del previsto.

 

Riferimenti:

  • Saliani, A.M., Gragnani, A., Mancini, F. (2010), L’ipocondria. In: Perdighe C., Mancini, F. Elementi di Psicoterapia Cognitiva. Roma, Giovanni Fioriti Editore
  • American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Washington
  • La paura delle malattie. Psicoterapia breve strategica dell’ipocondria di Giorgio Nardone, Alessandro Bartoletti 2018
  • Bailey, R., & Wells, A. (2014). Metacognitive therapy in the treatment of hypochondriasis: a systematic case series. Cognitive Therapy and Research.
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