Prendiamoci cura del dolore altrui

Questo post sarà un po’ diverso dagli altri: non parlerò nello specifico di patologie o di aspetti nosografici, bensì della sacrosanta importanza di una componente nella cura chiamata “empatia”. Ma non solo.

Empatia è un termine che deriva dal greco empatèia e si può tradurre all’incirca con la forma “mettersi nei panni di”: nei secoli questo concetto ha subìto diverse variazioni fino a trovare oggi anche un corrispettivo organico rappresentato dai neuroni a specchio, studiati dal prof. Giacomo Rizzolatti presso l’università di Parma negli anni ’90.

Empatia, per i cognitivisti significa comprendere non solo i pensieri altrui, ma anche le intenzioni e le emozioni, mettendosi nella stessa angolatura o prospettiva, del prossimo.

A mio parere, un valore aggiunto va dato invece al termine “pietà”, inteso non nel senso dispregiativo che gli viene talvolta -ed erroneamente- attribuito: questa parola deriva dal latino pietās ed è riconducibile al sentimento di amore e rispetto per le altre persone.

Pietà era originariamente associata al termine “misericordia” e veniva ancorata perlopiù al sentimento religioso, ma anche all’importanza della gerarchia e dell’unità familiare. Pietà è una condizione umana importante, spesso dimenticata poiché travisata da un significato inquinato: “provo pietà per te” suona oggi come una minaccia, facendo presagire un aggressivo squilibrio di potere tra le parti.

Questo termine rappresenta invece l’estremo atto d’amore che porta le persone a “prendersi cura di”, insegnando loro a stare nel dolore altrui, fisico o emotivo. Imparare a rimanere nel dolore di una persona rappresenta la massima prova d’amore, sia questa la condizione di una madre verso il figlio, di un ragazzo verso un’amica, di un marito verso la moglie o ancora di un caregiver verso la persona assistita.

Non dovremmo mai “abituarci” al dolore degli altri, sebbene sia spesso necessario e utile per ambo le parti imparare a mantenere la cosiddetta “giusta distanza” per non farsi sopraffare dall’angoscia. Parlando di questo ripenso alle quotidiane cure assistenziali che un operatore (sia esso o.s.s., infermiere, medico o psicologo) fornisce ad una persona in difficoltà.

Noi sanitari e clinici non dovremmo MAI abituarci alla sofferenza: questo può quindi significare che dovremmo disperarci ogni qualvolta entriamo in contatto con persone ammalate?

Ovviamente no. Tornando all’inizio del post, il compromesso, se così può essere definito, è rappresentato da un autentico sentimento di empatia e pietà, di ascolto sincero e presenza emotiva, che trova fondamento nella ricerca dell’originario motivo che ci ha spinti a scegliere una professione di questo tipo.

Chi sembra essersi veramente “abituato” alla sofferenza altrui non è insensibile, o cattivo: spesso in esso è nascosta una vulnerabilità più profonda, per cui è più utile (non preferibile, poiché processo implicito) corazzarsi e rendersi apparentemente aridi, che farsi travolgere da emozioni che non si è in grado di tollerare, poiché fanno paura.

Da sempre, a livello ancestrale, tendiamo ad allontanare ciò che ci terrorizza: questo è evoluzionisticamente una reazione difensiva.

Prendersi cura del dolore altrui può diventare non solo fonte di attenzione e supporto verso una persona in difficoltà, ma anche elemento fondamentale che può portarci ad evolvere e ad alleviare le nostre angosce, curando cicatrici emotive che derivano dal nostro passato.

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